Il comunismo è e rimane l'unica prospettiva di superamento positivo della società capitalistica. Ma quest'ultima, malgrado le sue traversie, pare divenuta un orizzonte insuperabile, e le forze protese al suo abbattimento sono oggi ridotte alla clandestinità e alla dispersione, se non al disorientamento. L'epoca del movimento operaio tradizionale, delle transizioni socialiste e dei loro programmi si è da tempo conclusa. Il patrimonio delle lotte e delle correnti teoriche del passato richiede un riesame profondo per separare ciò che è vivo da ciò che è morto. Il rapporto intercorrente tra le lotte quotidiane del proletariato, i movimenti interclassisti di massa dell'ultimo decennio e la rottura rivoluzionaria possibile appare più enigmatico che mai. La teoria comunista richiede nuovi sviluppi, per essere restaurata nelle sue funzioni. La necessità di affrontare questi nodi ci interpella in prima persona, come dovrebbe interpellare tutti i sostenitori del «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». I nostri mezzi sono a misura alle nostre forze: modesti. Impossibile in queste condizioni pretendere di essere i fautori unici e infallibili di una rifondazione teorica che arriverà a maturità solo in un futuro non prossimo. Ma è solo iniziando a camminare che si cominciano a tracciare strade percorribili.

Chi siamo


«Vedete voi tutto questo? In verità vi dico, non resterà pietra su pietra che non sia sconvolta».

«Il Lato Cattivo» è una rivista che viene editata da un ristretto nucleo di individui, formatosi a cavallo tra il 2010 e il 2011, sull'onda lunga della crisi e della rivolta greca del dicembre 2008, e sull'idea di fondo che questi due eventi (in particolare) avrebbero ridato un senso alla parola «rivoluzione», riattivando il legame effettivamente complesso e non automatico, ma comunque esistente, fra crisi e comunismo. Oggi questo nucleo, ridotto ai minimi termini, si divide fra l'Italia e la Francia. In questi sei anni sono stati pubblicati due numeri cartacei della rivista, la cui cadenza è quindi decisamente irregolare. Oltre alla rivista curiamo un blog, in cui pubblichiamo materiali vecchi e nuovi che ci sembrano poter integrare, confermare o arricchire i contenuti della rivista, e con lo stesso intento editiamo e diffondiamo anche altro materiale cartaceo. 

È nostra convinzione che la società attuale – il modo di produzione capitalistico (MPC) – sia essenzialmente strutturata dalle funzioni, reciprocamente dipendenti, di capitale, da una parte, e lavoro salariato produttivo di plusvalore (e quindi di capitale), dall'altra. Queste due funzioni essenziali fondano l'esistenza di due classi fondamentali, proletariato e classe capitalista, il cui conflitto – per quanto possa essere larvato e quasi impercettibile per la maggior parte del tempo – è nondimeno costante e, in quanto tale, costituisce la dinamica e la vita stessa del modo di produzione capitalistico. Questo tipo di conflitto, che senza alcun pathos particolare definiamo «lotta di classe», non è in sé e per sé nulla di speciale: è semplicemente la pressione che ogni classe esercita sull’altra per una più larga appropriazione del prodotto sociale, e quindi – nel MPC – una lotta attorno alla posizione del cursore che separa la massa dei salari e quella dei profitti. Questa lotta è, allo stesso titolo, la dinamica di tutti i modi di produzione esistiti fino ad oggi, e fornisce la chiave di comprensione della loro successione storica. Lo sfruttamento di una classe da parte di un'altra è la contraddizione che muove la storia, e per questo è giusto affermare – riprendendo l’incipit del Manifesto del Partito Comunista – che la storia di ogni società esistita fino ad oggi, è storia di lotte di classi. Questa contraddizione che è lo sfruttamento – nozione che non ha per noi alcuna accezione morale – si è riformulata e ristrutturata, a varie riprese, nel corso degli ultimi 20.000 anni; essa conferisce a questo segmento della storia umana il carattere di un processo orientato, che procede nel senso di uno sfruttamento del lavoro sempre più efficace e sistematico. E nondimeno questa contraddizione perviene – nella sua versione capitalistica – al suo stadio ultimativo, all'interno del quale essa diventa teoricamente pensabile e praticamente superabile. Affermare questo significa che essa potrà ancora perpetuarsi, riformularsi e ristrutturarsi all'interno del modo di produzione capitalistico, oggi arci-dominante su scala mondiale, ma che non potrà accedere ad alcuna forma diversa e superiore, dunque post-capitalistica, di sfruttamento del lavoro. È questa la ragione per cui, diversamente dai modi di produzione anteriori – ad esempio il modo di produzione feudale, che ha generato internamente, dalle proprie viscere, la struttura essenziale del mondo di oggi – il modo di produzione capitalistico non può dare vita, al proprio interno, ad alcun embrione di un nuovo modo di produzione. Il suo superamento possibile non si apparenta perciò in nulla alle transizioni da un modo di produzione all'altro storicamente conosciute, configurandosi piuttosto come una rottura totale, senza precedenti, un autentico cambiamento di paradigma nella storia umana: generazione per via necessariamente violenta e insurrezionale di un mondo senza classi né Stati, in quanto privo di sfruttamento.

Affinché una rottura rivoluzionaria possa verificarsi, è necessaria una destabilizzazione catastrofica della dinamica economica che regge e mena innanzi il mondo in cui viviamo; e la rottura rivoluzionaria stessa non potrà che essere a sua volta catastrofica, di portata immediatamente mondiale, e tale da mettere in movimento, con modalità molteplici e su linee di forza divergenti ed opposte, la stragrande maggioranza dei 7 miliardi e più di individui che abitano il pianeta. L'insistenza sulla nozione di catastrofe vuole evidenziare che la possibilità di un superamento radicale dell'assetto societario vigente verrà innanzitutto da un cambiamento profondo e accelerato delle circostanze e delle pratiche (di lotta, in primo luogo). L'agente, il «supporto umano» di questa rottura, è la classe che in ragione della sua posizione nella società porta sulla schiena, oltre al peso della propria riproduzione come classe, il peso della riproduzione della società intera e di tutte le altre classi che la compongono. In questa cesura storica, la classe che il XIX secolo battezzò con il nome di proletariato, diversamente da quanto fa nelle proprie lotte di ogni giorno, non si affermerà come classe, non generalizzerà la sua condizione: la negherà immediatamente.

Il rapporto tra le lotte quotidiane e il trapasso rivoluzionario è dunque un rapporto di vera rottura, non di progressione, e in quanto tale non è subordinato a un'accumulazione di esperienze o a una qualunque pedagogia. L'eccezionalità delle circostanze che sole possono «ospitare» una rottura, è tale da rendere impossibile la loro apprensione in periodi di riproduzione «normale» della società (anche in fase di recessione). Sebbene la storia non si ripeta mai uguale a se stessa, le crisi sociali più significative hanno spesso avuto come sfondo ampli conflitti militari. Rivoluzione comunista e guerra capitalistica sono in tutto e per tutto l'una il contrario dell'altra, e ciononostante possono generarsi e nutrirsi l'una dell'altra (1914-1945: guerra-rivoluzione-guerra). 

La rottura rivoluzionaria a venire conoscerà momenti organizzativi e di coordinamento a tutte le scale, dal livello «micro» a quello «macro», ma non sarà una questione di organizzazione, né di strategia, né la rottura sarà di natura politica, al contrario sarà schiettamente anti-politica. È questo tipo di processo che chiamiamo comunizzazione, un termine che non ha nulla a che vedere – essendone anzi l'esatta antitesi – con quelle visioni che pensano di poter individuare o creare nella società attuale delle «isole» di comunismo, ed egualmente con quelle visioni che riducono il contenuto del trapasso rivoluzionario alla mera abolizione della proprietà privata, ovvero dei rapporti di distribuzione attuali, attraverso la socializzazione dei mezzi già esistenti di produzione e di consumo.

È bene chiarire che l'insieme di queste proposizioni è un risultato storico, che discende dalla vasta traiettoria dello sviluppo del capitale e delle lotte di classe che gli hanno dato forma. Non si tratta di «verità» che sarebbero mancate alle rivoluzioni fallite di ieri e con le quali la storia sarebbe potuta andare diversamente, ma di un prodotto della storia tale e quale si è svolta. 

In conformità con queste linee direttrici, la «teoria del comunismo» così definita si articola su tre assi, che si sviluppano tanto in parallelo che intrecciandosi fra loro: a) la critica dell'economia politica tale quale è stata fondata da Marx e sviluppata da una parte ultra-minoritaria della sua posterità; b) l'analisi della fase sulla base di questa critica; c) la proiezione teorica del superamento comunista, che non è invariante ma soggetto a potenti discontinuità storiche. 

Il modo di produzione capitalistico, pur non mutando nella sua struttura essenziale, ha una storia che può essere suddivisa in grandi periodi – periodi che presentano delle caratteristiche omogenee in termini di modalità dello sfruttamento nel processo di produzione immediato, di modalità dell'accumulazione, di divisione internazionale del lavoro, di gestione della lotta di classe da parte dello Stato, e anche in termini di pratiche specifiche del proletariato nell’ambito delle sue lotte quotidiane, così come nei sommovimenti sociali di più ampia portata; e sono queste ultime che, in definitiva, forniscono il materiale a partire dal quale è possibile dedurre le fattezze e il contenuto rivoluzionari che possono manifestarsi ad un momento dato. I sedimenti dei cicli storici della lotta di classe si sovrappongono gli uni sugli altri come strati geo-archeologici; al di là di una certa soglia, questo processo impone alla teoria di coglierne le discontinuità, che sono anche discontinuità della teoria.

I tre assi appena menzionati, costituiscono l'ossatura dell'attività teorica così come noi la concepiamo, ma non la esauriscono, poiché ogni aspetto della vita umana – alimentazione, sessualità, cultura, arte, rapporto uomo/natura e via discorrendo – può essere preso come bersaglio dalla teoria comunista, la quale – come il personaggio di Mefistofele nel Faust – afferma a chiare lettere che tutto ciò che esiste merita di perire. 

Il rigetto delle nozioni di «periodo di transizione», di «socialismo inferiore», di «programma» etc., che integra il concetto di comunizzazione, non equivale a negare il carattere processuale del trapasso rivoluzionario o la mediazione temporale che esso necessariamente comporterà, come se una sorta di paradiso comunista già bell'e pronto possa cadere dal cielo da un giorno all'altro. La distruzione dei rapporti capitalistici su scala mondiale occuperà un lasso di tempo che durerà sicuramente alcuni decenni, forse di più. Parlare di comunizzazione, significa negare che il passaggio al comunismo possa risultare vittorioso senza tendere nettamente e fin da subito alla negazione di tali rapporti. Più specificamente, ciò significa negare attualità e valenza rivoluzionarie a tutte le forme cripto-mercantili ipotizzate e talvolta praticate dalle tre correnti del socialismo storico (marxismo, anarchismo e sindacalismo rivoluzionario) per sostituire – non fosse che in via provvisoria, dopo la conquista o la soppressione dello Stato – i rapporti di produzione e di distribuzione capitalistici (sistema dei buoni di lavoro, scambio di prodotti fra imprese autogestite etc.). Per quanto possa apparire tautologico, il passaggio al comunismo non verrà da nient'altro che dal comunismo stesso, ovvero dal fatto che masse umane significativamente grandi avranno iniziato a produrre senza alcuna contropartita materiale o monetaria. Di contro al buon senso comune, è solo su questa base che potrà emergere un consumo egualmente libero da contropartita, cioè «gratuito». Una simile trasformazione non può attendere di aver sconfitto militarmente questa o quella frazione della classe capitalista, in tale o tal altra area del globo, e ancor meno di averla sconfitta definitivamente su scala mondiale. La distruzione integrale dell'apparato statale borghese (parlamento, governo, amministrazioni, esercito, polizia) e la dispersione dei suoi sostegni all'interno della popolazione (corpi intermedi etc.), non possono che essere simultanee ed intrecciate alla vera e propria «espropriazione degli espropriatori», la quale non si decreta come un atto di vendita o una nazionalizzazione (in ogni caso come un cambiamento della proprietà giuridica), ma si pratica materialmente come espropriazione di tutto ciò che serve alla vita e alla lotta dei proletari insorti. Per vincere, essi sono costretti a negare la loro condizione di «senza riserve»: se restano tali – insorti ma a mani nude, e separati dai mezzi per vivere – sono già morti. Il concetto di comunizzazione, differente in ciò da quello di socializzazione (dei mezzi di produzione), non indica né una trasformazione pacifica e/o graduale, né un atto di natura giuridica, attinente ai soli rapporti di proprietà: ci si riferisce chiaramente ad un contesto insurrezionale, di scatenamento della violenza (anche armata), e ad uno sconvolgimento nella maniera di riprodurre la vita materiale nel suo senso più «terrestre». 

Affermando che il passaggio al comunismo non è una «transizione», almeno non nel senso che questo vocabolo ha assunto nella storia delle dottrine socialiste, ovvero quello della coesistenza tra un modo di produzione ascendente ed un modo di produzione declinante, intendiamo insistere sul fatto che il MPC – come già accennato – non genera al proprio interno alcun modo di produzione embrionale. In molti hanno voluto vedere i segni di un tale modo di produzione embrionale nel carattere sociale della produzione capitalistica, per opposizione all'appropriazione privata. In ciò, si fa della contraddizione fondamentale del MPC – tutta interna ai rapporti di produzione – una «contraddizione» tra produzione e distribuzione: basterebbe allora «socializzare» anche la seconda, e tutto sarebbe risolto. Sciocchezze! I rapporti di produzione capitalistici plasmano e si rispecchiano in una configurazione materiale: i mezzi di produzione sono concepiti privilegiando necessariamente certi criteri piuttosto che altri (la redditività anziché la salute, ad esempio); tutte le merci necessarie alla riproduzione della forza-lavoro (beni di consumo immediato, alloggi, trasporti etc.) devono permettere la sua ricostituzione rapida e poco onerosa; tutti i momenti e i circuiti di questa riproduzione (famiglia, istruzione, sanità etc.), quali che siano le loro variazioni, obbediscono allo scopo della produzione capitalistica: l'estorsione del plusvalore. Nessuno di questi aspetti avrebbe il privilegio di passare immutato sotto le forche caudine del passaggio al comunismo.

La soppressione della separazione del lavoratore dai mezzi di produzione e di sussistenza, non verrà da una sorta di diritto storico o morale al prodotto del proprio lavoro, e non può più essere assimilata all'atto del «legittimo proprietario» che rimette le mani sul «maltolto». Se questa concezione è stata per tutto un periodo quella prevalente, ciò dipende dal fatto che il lavoratore, già separato dai mezzi di sussistenza, aveva però ancora in mano la qualifica, la padronanza del processo produttivo; essa perde di senso allorché il capitale procede alla dequalificazione del lavoro, trasferendo le sue forze sociali (cooperazione, divisione del lavoro, scienza) al capitale fisso. Se, dopo il 1945, teorici come Amadeo Bordiga o altri hanno potuto avanzare una visione del comunismo inteso non come proprietà sociale o collettiva, ma come negazione di ogni forma di proprietà, ciò non è dovuto a una «migliore» lettura dei classici (ogni lettura, buona o cattiva, è storicamente determinata), ma innanzitutto al fatto che le mutate condizioni storiche portavano a leggere i classici con occhi diversi. Per quanto Bordiga si richiamasse alla più stretta ortodossia, ciò non basta a cancellare la novità.

Analogamente, il concetto di comunizzazione non è caduto dal cielo: è emerso da un'ondata di lotte di classe (quelle degli anni '60/'70) e dalla loro critica. Se è vero che quelle lotte non si avvicinarono nemmeno ad una rottura insurrezionale, esse fecero apparire il proletariato in una veste diversa rispetto a quella che gli era stata tramandata dalle generazioni precedenti, e permisero di intravedere la forma stessa del trapasso al comunismo, non più come creazione delle condizioni di un comunismo rimandato alle calende greche (gestione operaia della produzione, generalizzazione della condizione proletaria, sviluppo ulteriore della forze produttive etc.), ma come contenuto inerente all'avvio stesso del processo rivoluzionario. «Ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di programmi.» (Marx a Bracke, 5 maggio 1875).

Le concezioni che vedono nella prospettiva comunizzatrice una sorta di scorciatoia opportunista rispetto al duro cammino già tracciato dai classici, hanno il difetto di considerare la rivoluzione come la linea – più o meno retta o spezzata – che conduce dal punto A (il capitalismo) al punto B (il comunismo), dimenticando che B non esiste ancora, e che la sua «posizione» precisa rispetto ad A è sospesa alla traiettoria della linea che vi condurrà. Ciò non significa affatto riportare in auge il famoso motto di Bernstein «il movimento è tutto, il fine è nulla», né desiderare un trapasso rivoluzionario «più facile» (chi ha mai detto che sarebbe più facile?), ma semplicemente tenere materialisticamente in conto il rapporto tra il «movimento» e il «fine». Se l'uno e l'altro non sono coestensivi, il primo non condurrà mai al secondo. Inoltre, il «fine» è esso stesso pregno di storia e soggetto al mutamento: l'«invarianza del programma comunista», dato una volta per tutte nel 1848, non resiste alla critica. L'idea comunista appare non appena la classe capitalista si installa alla testa della società e la sua traiettoria si separa da quella del proletariato. In questo senso, esiste tutta una storia pre-marxiana e pre-quarantottesca del «programma comunista», non riducibile alle utopie sociali dei Saint-Simon, Owen et Fourier, e rigettata dai successori come «abbozzo primitivo». Per chi sa leggere, Marx stesso lo scrive: «Del “partito”, così come me ne parli nella tua lettera, non so più niente dal 1852. Se tu sei poeta, io sono critico, e mi è davvero bastata l'esperienza dal 1849 al 1852. La Lega [dei Comunisti, ndr], come la Société des Saisons di Parigi, come cento altre società, non è stata altro che un episodio nella storia del partito, che nasce spontaneamente dal suolo della società moderna.» (Marx a Freiligrath, 29 febbraio 1860; da notare che la Société des Saisons fu attiva dal 1837 al 1839, ndr). La visione del «come sarà dopo» e di come giungervi non smette di riformularsi in concomitanza con ogni dolorosa ricaduta del «movimento reale», prima, attraverso e dopo Marx. Il comunismo agrario di Babeuf non era più o meno realizzabile della «rivoluzione in permanenza» (Marx) nella Germania del 1848, ossia della transcrescenza – sempre e ovunque fallita – della rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria. Anche qui, come altrove, «l'anatomia dell'uomo spiega l'anatomia della scimmia» (Marx, Introduzione a «Per la critica dell’economia politica», 1857), nel senso preciso che la forma più recente e sviluppata, supera la precedente senza essere l'approdo teleologico in essa inscritto ab originem. Ogni ciclo storico della lotta di classe riformula il contenuto del comunismo e la forma della sua instaurazione sulla base della sconfitta del ciclo precedente e della ristrutturazione del rapporto di classe che ne segue, la quale rimodella allo stesso modo la composizione di classe del proletariato, le modalità del suo sfruttamento, le sue pratiche nelle lotte immediate, le forme di gestione della lotta di classe da parte dello Stato, la struttura mondiale dell'accumulazione, le interazioni fra i suoi poli nello sviluppo ineguale e combinato. Ogni ciclo e ogni riformulazione del contenuto del comunismo hanno ragione di considerarsi, di volta in volta, gli episodi ultimi, più maturi e definitivi, della lotta delle classi, anche se la storia darà loro torto.

L'avvicendarsi dei cicli storici della lotta di classe illustra la tendenza, niente affatto aleatoria, alla crescente separazione fra il contenuto della rivoluzione borghese e il contenuto della rivoluzione comunista. Più il modo di produzione capitalistico si sviluppa nel tempo e nello spazio, più il contenuto del comunismo di volta in volta formulato dalla teoria brucia i ponti che lo legano alle rivoluzioni storiche della borghesia. In ciò, la visione del comunismo non diventa «ciò che sarebbe sempre dovuta essere», semplicemente si riformula a contatto con nuove condizioni. Dalla iniziale rivendicazione di una semplice ripartizione egualitaria dei beni e dei lavori, essa evolve verso la rimessa in causa di tutti gli aspetti della vita umana, inglobando nel raggio visivo della sua critica, divisioni e antagonismi (lavoro/non-lavoro, rapporto uomo-natura, identità sessuali) più antichi, che il modo di produzione capitalistico ha inglobato e rimodellato a propria immagine. Dialetticamente, questo scisma contiene anche il suo contrario: il «passaggio del testimone» fra capitalismo e comunismo non si manifesta più nella continuità della forza produttiva materiale, ma piuttosto nell'impossibilità di un ritorno ad un'economia del bisogno e del valore d'uso. Subordinando a sé tutta la produzione di valori d'uso e facendone un momento del processo di valorizzazione, il MPC ha generalizzato e portato all'estremo la disconnessione tra il bisogno immediato ed il fine della produzione, tra l'apporto del lavoratore singolo al processo produttivo e la parte di prodotto sociale destinata a riprodurlo, tra la finitudine dell'individuo e l'infinità della «produzione per la produzione». Non è che uno fra i suoi innegabili «meriti». Ristabilire un avere commisurato al dare, foss'anche per la sola fase di trapasso al comunismo, sarebbe una regressione storica. Il MPC non prepara un ritorno – tanto insulso quanto irreale – ad una situazione anteriore, in cui i beni e i bisogni immediati sarebbero di nuovo l'alfa e l'omega della produzione: nel comunismo, essi resteranno ancora un momento, un supporto, non più per soddisfare la sete di plusvalore, ma il bisogno della ricchezza più grande: il bisogno degli altri. 

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