Il comunismo è e rimane l'unica prospettiva di superamento positivo della società capitalistica. Ma quest'ultima, malgrado le sue traversie, pare divenuta un orizzonte insuperabile, e le forze protese al suo abbattimento sono oggi ridotte alla clandestinità e alla dispersione, se non al disorientamento. L'epoca del movimento operaio tradizionale, delle transizioni socialiste e dei loro programmi si è da tempo conclusa. Il patrimonio delle lotte e delle correnti teoriche del passato richiede un riesame profondo per separare ciò che è vivo da ciò che è morto. Il rapporto intercorrente tra le lotte quotidiane del proletariato, i movimenti interclassisti di massa dell'ultimo decennio e la rottura rivoluzionaria possibile appare più enigmatico che mai. La teoria comunista richiede nuovi sviluppi, per essere restaurata nelle sue funzioni. La necessità di affrontare questi nodi ci interpella in prima persona, come dovrebbe interpellare tutti i sostenitori del «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». I nostri mezzi sono a misura alle nostre forze: modesti. Impossibile in queste condizioni pretendere di essere i fautori unici e infallibili di una rifondazione teorica che arriverà a maturità solo in un futuro non prossimo. Ma è solo iniziando a camminare che si cominciano a tracciare strade percorribili.

venerdì 30 novembre 2012

Lavorando noi operai produciamo capitale

Comitato operaio di Porto Marghera (1969)

Con una introduzione redazionale e un'appendice critica comprendente estratti dall'IS e da «Théorie Communiste».

[...] se Toni Negri e compagnia hanno avuto, nonostante tutto, un certo ruolo negli anni '60-'70, come nel periodo d'oro dei contro-vertici e del “Movimento dei Movimenti” – ruolo certo ridimensionato ma non esaurito – questo non si deve ad un complotto, né ad una semplice questione di mode culturali. Dunque non si tratta, più di tanto, di stigmatizzare i personaggi (alla voce “dissociazione” o giù di lì) o le loro sparate (Marx oltre Marx o Impero o...) in nome della pravda comunista, ma di mostrare in virtù di cosa certe sparate divengono possibili e ideologicamente efficaci. L'operaismo e il post-operaismo negrista sono, abbastanza evidentemente, l'inverso dell'economismo oggettivista. È precisamente lo statuto di questa inversione che si tratta di interrogare.
Da Lenin in Inghilterra («Classe operaia», n.1, 1964) in poi, l'ingiunzione operaista fondamentale è stata quella del rovesciamento del punto di vista: non sono le lotte che seguono lo sviluppo (o la crisi) dell'economia capitalista, è lo sviluppo (o la crisi) a seguire le lotte. Questa esigenza di porre in primo piano i soggetti non cadeva dal cielo, né proveniva solo dal beneamato “contesto storico”, fosse il formidabile ciclo di accumulazione post-bellico o il terzomondismo attendista del PCI. Ciò che è in un certo senso nell'aria, in quel periodo, è evidentemente la percezione – avvertita da più parti – di un nodo irrisolto della vecchia teoria marxista: realtà o illusione dei fenomeni economici? Questione in un certo senso implicita nella definizione di base del rapporto capitalistico: se infatti il capitale è un rapporto sociale, non è logico, allora, intendere il dominio separato dell'economia come un sistema di rappresentazioni menzognere?

giovedì 22 novembre 2012

La fine di «Socialisme ou Barbarie»

«Socialisme ou Barbarie» (1967)

Non è con beneficio d'inventario che pubblichiamo questo “addio alle armi” del gruppo-rivista francese «Socialisme ou Barbarie». E men che meno per rivalutarne le tesi più conosciute. La comprensione della contraddizione fra proletariato e capitale come contraddizione fra “dirigenti” ed “esecutori” – che avrebbe dovuto trovare nei regimi a capitalismo di Stato del blocco dell'Est la configurazione più socialmente esplosiva –, il misconoscimento della dinamica contraddittoria dell'accumulazione (necessità delle crisi), l'apprezzamento della democrazia diretta e perfino della sociologia industriale, infine l'idea di un'irrimediabile integrazione della classe operaia nei paesi più economicamente sviluppati a partire dagli anni '60 – su tutto questo, tenendo conto o meno della prospettiva storica, può anche scappare un sorriso. Fermo restando che i contributi di «Socialisme ou Barbarie» non si riducono a questo pugno di tesi – e qui basti ricordare L'expérience prolétarienne di Claude Lefort e gli articoli sulla Cina di Pierre Souyri –, l'interesse di questo cammino sta nella sua sintomaticità in relazione all'epoca. Giunto sulla scena allorché la sussunzione reale del lavoro al capitale si consolidava nell'area occidentale (integrazione della riproduzione della forza lavoro al ciclo del capitale, sotto l'egida dello Stato keynesiano), esso scomparve appena prima che il ciclo di accumulazione post-bellico iniziasse a flettersi, con gli scioperi del maggio francese del '68 e l'Autunno Caldo italiano del '69 (per non dire delle rivolte di Danzica e Stettino del '70) a rendere flagrante la contraddittoria convivenza di lotte operaie ben poco “fabbrichiste” accanto ad una mimica consiliarista ed autogestionaria che si rivela essere il terreno di ogni impasse e di ogni “recupero”: dal riflusso dell'Autunno Caldo nei Consigli di Fabbrica, all'esperienza della LIP in Francia, fino alla tragicommedia dei 35 giorni di occupazione a Mirafiori.

mercoledì 7 novembre 2012

La rivoluzione tedesca e lo spettro del proletariato

Carsten Juhl ("Invariance", 1974)

   La storia del movimento rivoluzionario tedesco è finora stata scritta – con una sola eccezione – a livello delle organizzazioni, cioè a livello delle forme di rappresentazione che quel movimento si era dato, e che sempre si sono autonomizzate. In effetti, esse non furono fattori soggettivamente rivoluzionari che per qualche mese, nel periodo già breve che va dal 1918 alla primavera del 1921, lasciando quindi a tutte le proprie espressioni politiche e militari, fatta eccezione per i momenti di maggiore intensità, una funzione stabilizzatrice ed organizzatrice a livello politico-economico.
Questa funzione rivela il contenuto possibile, e dunque sovente realizzato, del movimento in quanto sinistra radicale del capitale; in realtà – a parte qualche breve momento di scontro (che rivelò però una notevole aggressività in certi gruppi di proletari) – le formazioni della sinistra tedesca hanno avuto come obiettivo reale quello di assicurare la sopravvivenza sociale di una parte della classe di cui erano l'espressione, ovvero dei settori più radicali del proletariato. Ciò significava evidentemente porsi dei problemi che non erano quelli di una rivoluzione integralmente anticapitalista, ma soltanto quelli di una rivoluzione contro la miseria capitalistica di allora.