Non
è con beneficio d'inventario che pubblichiamo questo “addio alle
armi” del gruppo-rivista francese «Socialisme
ou Barbarie». E men che meno per rivalutarne le tesi più
conosciute. La comprensione della contraddizione fra proletariato e
capitale come contraddizione fra “dirigenti” ed “esecutori” –
che avrebbe dovuto trovare nei regimi a capitalismo di Stato del
blocco dell'Est la configurazione più socialmente esplosiva –, il
misconoscimento della dinamica contraddittoria dell'accumulazione
(necessità delle crisi), l'apprezzamento della democrazia diretta e
perfino della sociologia industriale, infine l'idea di
un'irrimediabile integrazione della classe operaia nei paesi più
economicamente sviluppati a partire dagli anni '60 – su tutto
questo, tenendo conto o meno della prospettiva storica, può anche
scappare un sorriso. Fermo restando che i contributi di «Socialisme
ou Barbarie» non si riducono a questo pugno di tesi – e qui basti
ricordare L'expérience
prolétarienne
di Claude Lefort
e gli articoli sulla Cina di Pierre Souyri
–, l'interesse di questo cammino sta nella sua sintomaticità in
relazione all'epoca. Giunto sulla scena allorché la sussunzione
reale del lavoro al capitale si consolidava nell'area occidentale
(integrazione della riproduzione della forza lavoro al ciclo del
capitale, sotto l'egida dello Stato keynesiano), esso scomparve
appena prima che il ciclo di accumulazione post-bellico iniziasse a
flettersi, con gli scioperi del maggio francese del '68 e l'Autunno
Caldo italiano del '69 (per non dire delle rivolte di Danzica e
Stettino del '70) a rendere flagrante la contraddittoria convivenza
di lotte operaie ben poco “fabbrichiste” accanto ad una mimica
consiliarista ed autogestionaria che si rivela essere il terreno di
ogni impasse
e di ogni “recupero”: dal riflusso dell'Autunno Caldo nei
Consigli di Fabbrica, all'esperienza della LIP in Francia, fino alla
tragicommedia dei 35 giorni di occupazione a Mirafiori.